mercoledì 27 maggio 2009

è un problema suo

Sostiene La Porta (Filippo) che l'italiano si sta plastificando. Che la lingua sta smarrendo la sua naturale fluidità per addensarsi in formule sempre più rigide e stereotipate che risparmiano a noi la fatica di pensare e ai nostri interlocutori quella di capire. Che "la progressiva insignificanza di molte espressioni che adoperiamo rinvia alla progressiva insignificanza delle nostre vite".
Sono le premesse di un libro («È un problema tuo», 107 pp. Gaffi Editore) in cui La Porta ci fornisce il suo personale catalogo di fossili linguistici, di espressioni che l'utilizzo indiscriminato, invece di vivificare, ha irreversibilmente spento.
Esempi: in qualche modo, tipo che, fa la differenza, come dire?, un attimino, non me ne può fregare di meno, è un problema tuo, eccetera. Tic linguistici che sarebbero "rivelatori di atteggiamenti, modalità dei sentimenti, strategie esistenziali, abitudini mentali, nevrosi e ossessioni collettive".
Dirò subito, a scanso di equivoci, che due di queste espressioni ("come dire" e "in qualche modo") le uso anch'io con allarmante frequenza e sono il primo a riconoscere che, nella maggior parte dei casi, non aggiungono nulla al significato dei miei discorsi. Questo però non implica che tali discorsi siano di per sé insignificanti (almeno spero). Vuol dire invece che l'articolazione in parole del mio pensiero è lenta, laboriosa, piena di pause ed esitazioni che senza neanche accorgermente riempio con materiale linguistico inerte.
La Porta dà invece una spiegazione diversa: "in qualche modo" - dice lui - vorrebbe manifestare, da parte del parlante, "un'attitudine dialettica del pensiero, la dimostrazione di uno spirito seriamente problematico. Soltanto che «in qualche modo» si può davvero collegare tutto con tutto, e allora si ha come diritto a una sorta di immunità e(...) il giudizio morale viene prudentemente sospeso". Quanto a "come dire?", sarebbe il portato di una civiltà in cui "è diventato più importante come dire le cose piuttosto che cosa dire" e rappresenterebbe una sorta di "riconoscimento storico della obsolescenza dei contenuti".
Che dire? Anzi: come dire? A me queste spiegazioni persuadono poco. Mi sembrano tentativi di trovare delle radici a una moda pigra e superficiale, di cercare - lui sì - troppi contenuti (antropologici, sociali, culturali, emotivi) in quelle che, nella fattispecie, sono semplicemente forme vuote. Più convincente sarebbe stato il suo ragionamento se non avesse mescolato troppo la linguistica alla sociologia e la pragmatica alla politica, limitandosi a trattare espressioni come "è un problema tuo", "non me ne può fregare di meno" o "fa la differenza" che davvero forse riescono a riassumere l'esprit du temps. Perché non l'ha fatto? È un problema suo.

2 commenti:

  1. Condivido. Mi fanno anche un po' ridere quelli che soffrono di "allergie" a certi vocaboli. Che non "sopportano" e "inorridiscono" a sentir usare certe parole. Tipo supportare, sinergia o giù di lì. Ma perché (e sottolineo il Ma)? Però è anche vero che ci sono alcune parole che "suonano" proprio male: per esempio "introiettare". Posso io, fanciulla per bene, pronunciare un vocabolo con un cuore così brutto? :-)
    Baciii
    Bea

    RispondiElimina
  2. Non ci avevo mai pensato... Come tutti i verbi con il suffisso "-ficare".
    Scherzi a parte: io credo che ciascuno di noi abbia diritto a detestare (e a correggere, nel caso dei prof.) non più di venti parole, come cerchiamo di insegnare a Pablo a fare con i cibi.
    Per il resto dovremmo curare le nostre intolleranze verbali con l'omeopatia. Nel senso che se non ci piace la parola sinergia, l'unico modo per digerirla è utilizzarla a nostra volta, appropriarcene, cucinarla nei nostri tegami e con i nostri ingredienti fino a farle cambiare sapore. Non ti pare?

    RispondiElimina