martedì 9 giugno 2009

Sin dalla preistoria

Tema in classe: «La morte. Purtroppo è sempre stata tra i "fenomeni naturali" più diffusi. Parla di questo strano fenomeno che procura solo dolore per le persone che ci stanno accanto e di un avvenimento che spieghi le emozioni che hai provato in quell'occasione».

Svolgimento: «Purtroppo la morte è uno dei tanti fenomeni più diffusi, sin dalla preistoria»

(Tutto vero. Tratto da: Serianni-Benedetti, «Scritti sui Banchi», Carocci Editore)

mercoledì 27 maggio 2009

è un problema suo

Sostiene La Porta (Filippo) che l'italiano si sta plastificando. Che la lingua sta smarrendo la sua naturale fluidità per addensarsi in formule sempre più rigide e stereotipate che risparmiano a noi la fatica di pensare e ai nostri interlocutori quella di capire. Che "la progressiva insignificanza di molte espressioni che adoperiamo rinvia alla progressiva insignificanza delle nostre vite".
Sono le premesse di un libro («È un problema tuo», 107 pp. Gaffi Editore) in cui La Porta ci fornisce il suo personale catalogo di fossili linguistici, di espressioni che l'utilizzo indiscriminato, invece di vivificare, ha irreversibilmente spento.
Esempi: in qualche modo, tipo che, fa la differenza, come dire?, un attimino, non me ne può fregare di meno, è un problema tuo, eccetera. Tic linguistici che sarebbero "rivelatori di atteggiamenti, modalità dei sentimenti, strategie esistenziali, abitudini mentali, nevrosi e ossessioni collettive".
Dirò subito, a scanso di equivoci, che due di queste espressioni ("come dire" e "in qualche modo") le uso anch'io con allarmante frequenza e sono il primo a riconoscere che, nella maggior parte dei casi, non aggiungono nulla al significato dei miei discorsi. Questo però non implica che tali discorsi siano di per sé insignificanti (almeno spero). Vuol dire invece che l'articolazione in parole del mio pensiero è lenta, laboriosa, piena di pause ed esitazioni che senza neanche accorgermente riempio con materiale linguistico inerte.
La Porta dà invece una spiegazione diversa: "in qualche modo" - dice lui - vorrebbe manifestare, da parte del parlante, "un'attitudine dialettica del pensiero, la dimostrazione di uno spirito seriamente problematico. Soltanto che «in qualche modo» si può davvero collegare tutto con tutto, e allora si ha come diritto a una sorta di immunità e(...) il giudizio morale viene prudentemente sospeso". Quanto a "come dire?", sarebbe il portato di una civiltà in cui "è diventato più importante come dire le cose piuttosto che cosa dire" e rappresenterebbe una sorta di "riconoscimento storico della obsolescenza dei contenuti".
Che dire? Anzi: come dire? A me queste spiegazioni persuadono poco. Mi sembrano tentativi di trovare delle radici a una moda pigra e superficiale, di cercare - lui sì - troppi contenuti (antropologici, sociali, culturali, emotivi) in quelle che, nella fattispecie, sono semplicemente forme vuote. Più convincente sarebbe stato il suo ragionamento se non avesse mescolato troppo la linguistica alla sociologia e la pragmatica alla politica, limitandosi a trattare espressioni come "è un problema tuo", "non me ne può fregare di meno" o "fa la differenza" che davvero forse riescono a riassumere l'esprit du temps. Perché non l'ha fatto? È un problema suo.

mercoledì 20 maggio 2009

Parole contro

Tra le tante parolacce, alcune anche piuttosto sboccate, che io e mio fratello ragazzini raccoglievamo per strada e portavamo in casa esibendole come prove della nostra cittadinanza nel mondo adulto, ce n'è una che nostra nonna non fu mai disposta ad accogliere al proprio desco: "picio". Allora non capivo perché "picio" le sembrasse più detestabile di "cazzo", che pure proveniva dalla stessa galassia semantica e oltretutto mancava di quella coloritura regionale capace di rendere simpatiche e cordiali anche le volgarità più irripetibili. Di fatto, sdoganati a denti stretti "casino" (che in lei evocava ancora l'idea del postribolo), "merda" e persino "stronzo", rimaneva "picio" a segnare la frontiera innegoziabile di una decenza verbale rispetto alla quale non sarebbe stata più disposta ad arretrare.
Anni dopo, ripensandoci, mi è venuto in mente che alla nonna, più del termine in sé, probabilmente dava fastidio il suono, e più del suono l'immagine che aveva di coloro che potevano usare quell'espressione impronunciabile (che infatti lei non pronunciava mai, citandola come "quella parola lì").
Voglio dire che forse mia nonna associava l'idea di "picio" non al suo significato, ma all'aspetto, alla voce e al tono di qualche persona concreta che presumibilmente la impiegava con frequenza e che le doveva apparire particolarmente maleducata. Il problema, insomma, non era il termine in sé, bensì il mondo che evocava.
Tutta questa premessa perché oggi la rivista "Focus" ha pubblicato l'esito di un sondaggio informale condotto tra i suoi lettori in cui si chiedeva quali fossero, secondo loro, le parolacce (115 tra insulti, imprecazioni e maledizioni) più parolacce della nostra lingua. Per i risultati del sondaggio (e per il grafico del "volgarometro") vi rimando al seguente link: la http://www.focus.it/Community/cs/blogs/vito_dixit/archive/2009/05/16/327851.aspx.
Qui mi limiterò ad alcune osservazioni.
La prima è che in testa alla classifica ci sono due bestemmie, che nemmeno l'autore del sondaggio ha il cuore di riportare per iscritto e che anche gli atei (il 33% dei naviganti si è dichiarato tale) considerano un tabù invalicabile, con buona pace dei paranoici che considerano i senza-dio una minaccia per i credenti. Da notare anche che la bestemmia contro la Madonna è considerata, sia pure di poco, più grave di quella contro Dio, ma non è certo una sorpresa in un paese di bamboccioni da sempre devoti alla Beata Vergine della Biancheria Stirata più che al Padre Onnipatente (nel senso di Colui che fornisce le chiavi della macchina)
Seconda osservazione.
Tra gli insulti riportati nella graduatoria compaiono termini di per sé innocui come "facchino", "portaborse" o "proletario" che francamente ignoravo si potessero usare per offendere qualcuno. Tuttavia sono secoli che la semplice identità - sociale, sessuale, etnica, religiosa, professionale - costituisce lo spazio naturale dell'ingiuria. Non inganni il fatto che "giudeo", "rabbino", "negro" o "zingaro" si trovino nella seconda metà della classifica. Intanto perché non è raro che compaiano accompagnati da un qualificatore ("sporco", "bastardo", "di merda", ecc.). E poi perché chi li pronuncia il più delle volte ritiene di non offendere nessuno ma di compiere un semplice atto di "ascrizione" a una categoria (inferiore, ça va sans dire: rimando per approfondimenti al fondamentale libro di Federico Faloppa intitolato come questo post).
Terza osservazione.
Mentre un maschio, nel peggiore dei casi, può sentirsi dare dello "stronzo", per le donne gli insulti più pesanti ("puttana" e consimili) sgorgano tenacemente dalle viscere più melmose e sessiste della nostra civiltà. Per non parlare degli omosessuali, che nemmeno il detersivo del politically correct ("gay" invece di "frocio") basta a sbiancare della macchia originale data dalla loro stessa condizione.
Ultima osservazione
Secondo il sondaggio, "fascista" e "nazista" sono tuttora considerate offese molto più pesanti di "comunista". A giudicare da chi governa questo paese, non l'avrei mai detto.

giovedì 30 aprile 2009

Moderatevi voi

Tra la grammatica e il bon ton. Da anni, sui muri di Torino, compaiono periodicamente dei manifesti con una scritta perentoria: MODERATI. Il maiuscolo non basta a rendere l'idea di quanto spesse e minacciose siano le lettere di quella scritta, che anche viste da lontano intimidiscono come un esercito di buttafuori schierati. Quando ci passavo davanti, le prime volte, mi sembrava uno di quei messaggi millenaristi del tipo "Zeus ti vede" (cfr. Carlo Pestelli), e mi capitava di arrestarmi lì di fronte a riflettere su quando e come mi fossi comportato in maniera tanto sfrenata da giustificare un richiamo così energico da parte di qualcuno. Ci ho impiegato parecchio tempo a capire che quella scritta non era un'esortazione rivolta a me e agli altri peccatori, bensì il manifesto di un partito politico, i "Moderati" appunto, compagine policroma che riunisce transfughi di quasi tutti i partiti dell'arco parlamentare, da Rifondazione a Forza Italia.
Altro non saprei dirvi sulla loro collocazione politica, salvo che in Piemonte stanno col centrosinistra e in Puglia col centrodestra.
L'unica certezza che ho sul loro conto è che non conoscono la grammatica italiana, oppure che sono dei maleducati. Per evitare ogni ambiguità sarebbe bastato che usassero l'accento o almeno un carattere più piccolo. Non avendo fatto né una cosa né l'altra, viene da pensare che l'abbiano scritto così apposta. E che siano proprio loro i primi a doversi moderare.

mercoledì 29 aprile 2009

trapassato

Nel senso di lontano, remoto, defunto. In grammatica il trapassato è più di un passato: è un passato che viene prima di un altro passato, è insomma una specie di nonno del presente. Nell’indicativo esistono due tipi di trapassato – il trapassato prossimo (io avevo cominciato) e il trapassato remoto (io ebbi finito). Se consultate una qualunque grammatica, troverete ancora gli specchietti con le coniugazioni complete, che infatti a scuola si studiano regolarmente. Purtroppo, come succede a molti nonni, anche i trapassati non godono di una salute ferrea, specie quello remoto. Anzi, si direbbe che quest’ultimo si stia lentamente consumando, dimenticato in quella specie di ospizio della lingua che è, per i molti che non sono abituati a frequentarla, la letteratura.
Per amor di completezza, vorrei ricordare che esiste un trapassato pure nel congiuntivo, che si usa per esempio nel periodo ipotetico («se avessi potuto sarei venuto»). Anche lì, tuttavia, i parlanti tendono a preferirgli l’imperfetto («se potevo venivo») che a rigor di grammatica sarebbe appunto un po’ imperfetto, e che tuttavia, forse grazie alla sua duttile indeterminatezza, gode di una popolarità sempre maggiore.
Il trapassato, però, non è soltanto un tempo verbale. È anche uno stato dell’anima, una specie di senilità emotiva precoce, un’incapacità endemica di declinare le cose al futuro. Trapassato è chi dice “ai miei tempi”, come se “quei tempi” fossero il baricentro inamovibile della storia e non un semplice fotogramma nel continuum delle vicende umane. Trapassato è chi nell’affrontare la crisi tira in ballo ora Keynes, ora Roosevelt ora Reagan, dimenticando che nessuno di costoro avrebbe neppure immaginato una perversione finanziaria come i subprime. Trapassato è chi fa paragoni tra l’Onda e il Sessantotto, negando ai giovani che protestano contro la riforma scolastica e universitaria una sacrosanta identità autonoma. Trapassato (a volte, anzi, addirittura “stra-passato”) è Facebook, botola tecnologica che dà accesso a vecchi amici, vecchie foto e vecchie emozioni che a un certo punto della nostra esistenza avevamo portato in soffitta e che adesso, chissà perché, abbiamo deciso di far riemergere sullo schermo del computer.
Non so se ci avete fatto caso, ma mentre la crisi incalza e il futuro arranca, uno dei prodotti di consumo più gettonati della modernità è diventato il passato, anzi il trapassato. Lo offrono le aziende, le tivù e naturalmente Internet (via Facebook, Youtube e siti per nostalgici), e non è la solita operazione nostalgia o l’ancor più solito – e ricorrente – revival modaiolo. Stavolta il passato vende perché c’è domanda. Una domanda crescente di quelli (soprattutto 30/40 enni) che si commuovono davanti alla nuova 500 perché somiglia tanto alla vecchia, che creano community per capire che fine ha fatto «Supergulp», che caricano e guardano su youtube le puntate di Portobello o dell’Altra Domenica, che perdono il senno di fronte alla replica di una maglietta dell’Inter di Herrera, che cercano il significato del proprio vissuto nel catalogo di rughe e stempiature di Facebook.
Del resto è normale guardare al passato se di fronte a sé non si riesce più a intravedere il futuro. Strano solo che, in questa overdose di passato, nessuno usi più il tempo trapassato.

sabato 25 aprile 2009

Val più la pratica - premessa

Sarà anche vero, come si sente dire in giro, che l’italiano si sta imbarbarendo, che gli incolti lo inquinano, che l’inglese lo corrompe, che i giornali lo mortificano e che la televisione lo umilia, ma non c’è al mondo esercito più feroce e agguerrito di quello che ogni giorno – dalle cattedre scolastiche, dalle rubriche della posta su giornali e riviste, e ultimamente anche dai blog – presidia la frontiera che separa la lingua «buona» dalla lingua «cattiva». Una legione di insegnanti, veteropuristi e neocruscanti impegnati a vario titolo in battaglie quotidiane contro i tanti subdoli nemici che metterebbero a repentaglio l’integrità della lingua di Dante: il che polivalente, lui e lei usati come soggetti, le «dislocazioni», gli anacoluti, la scomparsa del congiuntivo, la punteggiatura approssimativa, l’eccesso di anglicismi, le ripetizioni, e molto altro ancora. A ispirare e a sorreggere queste devote sentinelle di una lingua «buona», la fede cieca e assoluta nelle virtù salvifiche della Grammatica, entità quasi metafisica che tutto spiega, tutto classifica e tutto dispone.
In realtà la grammatica – con la minuscola – spiega molto ma non tutto, classifica in maniera non sempre soddisfacente, e quanto al disporre, non è che la gente le dia sempre poi così retta. I linguisti in qualche modo se ne sono fatti una ragione e lavorano con impegno per rendere meno imperfette le loro teorie e le loro descrizioni; sono le persone comuni a non rassegnarsi e a invocare l’intervento di qualcuno o qualcosa che metta le ganasce a chi si ostina a oltraggiare la lingua. Questo libro, in cui si cerca di ridefinire il concetto di errore, di aggiornare la nomenclatura e la dottrina grammaticale più obsolete, e soprattutto di riabilitare, attraverso gli esempi, alcune presunte devianze dalla norma, è diretto soprattutto a loro. Nella speranza che imparino a prendere meno sul serio la grammatica, e soprattutto se stessi.

Perché questo blog?

Qualcuno - non ricordo chi e in quale circostanza - mi ha spiegato una volta che la grammatica è un po' come un guinzaglio della lingua: serve a non farla scappare, a disciplinarla, a frenarne il temperamento irriducibilmente anarchico. Bella immagine, ho pensato, figurandomi una donna energica e autoritaria nell'atto di resistere agli strattoni di un cane sovraeccitato mentre questo cerca di trascinarla - lei e i suoi tacchi - nel fango.
Ora, anche se personalmente non amo sporcarmi le mani, so che il richiamo del fango, per i cani e per la lingua, è irresistibile. Possiamo educarli, incatenarli, al limite anche punirli, ma il giorno in cui li lasciamo soli (la lingua e i cani) è molto probabile che andranno a rotolarsi nella melma felici e spensierati. Non solo fa parte della loro natura, ma testimonia la loro vitalità. Un cane che non puzza non è un vero cane. Una lingua che non si sporca non è una vera lingua.

Che fare dunque del guinzaglio? Buttarlo via? Non esageriamo. Diciamo che si consiglia di usarlo solo quando serve, quando cioè si porta la lingua a spasso nei salotti più esclusivi o tra le pagine scritte di un libro. Per il resto, basta assicurarsi che non abbai troppo, e soprattutto che non morda.

Tutto questo lungo preambolo per introdurre il blog, che è un po’ il prolungamento del libro di cui vedete la copertina qui a fianco. Un libro in cui si racconta di una grammatica senza tacchi e senza guinzaglio. Un libro in cui si spiega che chi abbaia davvero sono i puristi della domenica, i “neo-crusc” che sbraitano perché vorrebbero vedere la lingua sempre candida e disinfettata. Un libro in cui vengono affrontate decine di argomenti ma ne vengono tralasciate centinaia. Il presente blog serve a colmare questa lacuna. E a scatenare il dibattito.